
Il deserto dei tartari è uno dei capolavori del maestro Dino Buzzati, opera simbolica, racconta di un giovane militare virgulto assatanato di combattimenti e vittorie che si trova per tutta la vita in attesa di grandi scontri che non arriveranno mai, sino a passare dalla rassicurante figura materna degli inizi della sua carriera di ufficiale a quella della falciatrice a fine carriera. In questo arco di tempo che gli consuma tutta una vita il vero nemico agognato da sempre si manifesta all’ improvviso quasi a insaputa del protagonista (Giovanni Drogo) in una camera d’albergo che simmetricamente chiude nel romanzo l’incipit che nasce sempre in una camera, ma più rassicurante rispetto a quella vissuta alla fine. Stranamente si verifica in questo ricongiungimento nella volta celeste narrativa tra ideali zenith e nadir un miracolo di struttura circolare: all’ infelicità iniziale o se vogliamo inquietudine (che estrapoliamo dalla frase “si guardò allo specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato“) si conquista alla fine un imprevedibile e sperato senso di serenità (“nel buio, benché nessuno lo veda, sorride“) a formare una sorta di complementarietà architettonica, che deforma la simmetria degli estremi e rimette il kasos iniziale al suo posto precostituito.
L’incipit del il deserto dei Tartari:
Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente. Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò allo specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato. Nella casa c’era un grande silenzio, si udivano solo piccoli rumori da una stanza vicina; sua mamma stava alzandosi per salutarlo. Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all’Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice; delle sveglie invernali nei cameroni gelati, dove ristagnava l’incubo delle punizioni. Ricordò la pena di contare i giorni ad uno ad uno, che sembrava non finissero mai.
Epilogo:
«La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.»
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